Sto per attraversare il portone di casa quando vengo anticipata di qualche passo dal mio dirimpettaio. Un giovane padre sulla quarantina, apre il portone e fa entrare prima suo figlio, non avrà avuto più di 3 o 4 anni al massimo.
Mantiene il portone aperto anche a me. Il bambino ridendo dice qualcosa, qualcosa che non capisco perché il tedesco ancora non lo parlo. Riesco appena a dire un “thank you” prima di rendermi conto di essere una straniera, nella sua terra.
Dopo pochi secondi penso che il bimbo siriano morto sulle spiagge di Bodrum in Turchia doveva aver avuto una voce squillante come quella del suo bambino. Perché è questo lo scopo di tutte le notizie e le immagini che si sono viste oggi, smuovere le coscienze. È la mia è un tumulto.
Troppo preoccupati del nostro dolore per riuscire (volere?) ad immaginare quello degli altri esseri umani. Un bambino muore e penso che come lui almeno altri 100 ne sono morti oggi tra bombe, malattie o solo infelici casualità.
Vedo mio nipote e gli occhi di mia madre terrorizzati quando lui si tuffa in piscina e non ha i braccioli. Gli allunga un galleggiante o una tavoletta perché sa che a galla ci sa stare ma teme il momento in cui dovesse finire con la testa sotto l’acqua.
Penso a quella madre sulla barca. Penso al padre, l’unico “sopravvissuto”.
Non ne so nulla di politica, non starò qui a dire quindi di chi o meno sia la colpa di queste morti. Ma non mi manca il senso di pietà, compassione e completa impotenza che sento adesso.
Qualcuno qualcosa la dovrà pur fare oggi. Perché oggi, e con quell’immagine, questa che chiamiamo civiltà, o muore o rinasce.
Enrica